Rispetto a quanto si possa pensare, il concetto di universalità dei diritti non è il frutto di una formulazione recente, esso è bensì un seme che è stato piantato nella nostra cultura molto prima di quanto si possa credere.Delle possibili radici possono risalire alla storia romana la quale, dall'età repubblicana fino alla tarda età imperiale, è stata segnata da un continuo processo di integrazione di tutte quelle popolazioni che entravano a far parte dell'impero, processo che non si limitava a mere manovre economiche o all'accettazione di nuovi culti ma si concretizzò con la concessione della cittadinanza romana. L'essere Civius Romanus non era solo un riconoscimento sociale ma garantiva tutti i diritti e le tutele che il governo centrale di Roma era tenuto a offrire, oltre a permettere il possibile accesso alle cariche pubbliche e alle magistrature e la possibilità di partecipare alle assemblee politiche della città di Roma.
La portata universale, e a tratti provvidenziale, dell'impero romano e la sua gestione del diritto ha alimentato numerose riflessioni nelle più grandi menti della storia umana. In particolare mi vorrei soffermare sui pensieri in merito di uno dei più grandi teorici e autori della nostra cultura, ovvero Dante Alighieri.
Dante nutriva una fede profonda nella natura provvidenziale di quello che era allora il Sacro Romano Impero, visto come l'erede spirituale della romanità classica, al punto che nelle sue Epistole non esitò a rivolgersi direttamente all'attuale imperatore Enrico VII di Lussemburgo, quando questi giunse in Italia nel 1310, esortandolo a restaurare l'autorità imperiale in un paese ormai frammentato da lotte intestine e vittima di un vuoto di potere che la chiesa pretendeva inopportunamente di colmare. Sebbene tali pensieri in materia di diritto e politica siano stati principalmente oggetto di un apposito trattato, il “de Monarchia”, tracce significative di queste riflessioni le possiamo trovare in un'opera precedente di impostazione più filosofica, il “Convivio”.
In quest'opera, di cui sono stato scritti solo quattro dei quindici trattati che dovevano comporla, Dante riserva il quarto trattato alla riflessione filosofica del problema della nobiltà. Volendo contestualizzare la tesi dell'imperatore in merito a tale concetto, Dante nel capitolo IV del trattato illustra il fondamento filosofico dell'autorità imperiale: il fine ultimo della società umana è la felicità e quest'ultima, in accordo con l'assunto aristotelico secondo cui l'uomo è un animale sociale, è raggiungibile unicamente con la piena concordia e fratellanza fra gli uomini su ogni livello, dai rapporti interpersonali fino ai rapporti tra le nazioni, giacché sono le divisioni tra gli uomini a far da presupposto alle bramosie e alle rivalità che li tengono lontani dalla felicità. Per questo motivo è necessario che tutta la terra sia unificata sotto un'unica autorità volta a regolare in virtù di tale principio i rapporti tra gli uomini, un'autorità conferita non in virtù della forza o della ragione ma in virtù di un'investitura dall'alto. È in questo che si rivela secondo Dante la missione provvidenziale del Sacro Romano Impero, successore spirituale dell'impero romano.
Perciò si può dire che Dante, vissuto in un mondo per certi versi frammentato e ancora in parte inesplorato, era pienamente consapevole del ruolo cruciale che l'universalità del diritto rivestiva all'interno di una prospettiva unificante che andasse oltre i meri confini nazionali, ancor prima che il XX secolo, con le sue atrocità e i suoi progressi, ci ponesse dinanzi all'annoso problema di una società globale.
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